«Non posso narrare la mia vita. Non posso narrare la mia infanzia». Così Moscato mette le mani avanti, nella maniera più efficace. E a scanso d’ogni equivoco, aggiunge: «Perciò, in questi “Anni Piccoli”, non si racconta nulla per intero. Anzi, meglio: non si racconta propriamente nulla affatto!». Ma allora, che cos’è questo libro, dichiaratamente destinato a rievocare l’infanzia e la prima adolescenza di Moscato sulla traccia di suoi antichi quaderni e fogli e appunti sparsi? In breve si tratta di un excursus che si colloca nel contesto socio-culturale. Il tutto richiama la figura di Partenope: nome che non a caso significava, presso i greci, «occhio di vergine». L’occhio come sinonimo del sapere, a partire dai Veda indiani, e la verginità come sinonimo di uno sguardo separato da qualsiasi tentazione di lanciare messaggi. Per dirla con parole più semplici e dirette, queste pagine sono esattamente ciò che è Enzo Moscato, al di là di qualsiasi mediazione intellettualistica. Bisogna riandare, insomma, a ciò che è il suo teatro. Gli anni piccoli contengono numerose tematiche dell’adolescenza napoletana del drammaturgo associate ad altrettante matrici musicali e a scene sonore, popolate da interpreti storici.
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