L’averroismo latino nella tradizione storiografica da Alberto Magno, attraverso Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio, fino a Bayle e a Leibniz, è consegnato ad una lettura che, anche tra Ottocento e Novecento, lo legittima come dottrina empia e atea, nonché come precorrimento del libertinismo e dell’immanentismo illuministico. Nelle interpretazioni più recenti, il pensiero di Averroè «autore maledetto», e dei suoi epigoni medioevali, si configura a partire da una progressiva rivisitazione dei suoi fondamentali nuclei storico-teoretici: dalle condanne parigine – apice del violento scontro in atto tra teologi e filosofi nella seconda metà del XIII secolo relativo alla natura del rapporto fra fede e ragione – alla connotazione di ordine antropologico ed etico dell’averroismo come vero e proprio «delirio» che separa l’essere del pensare e del dire da quello dei singoli uomini. In tale chiave ermeneutica, la relazione stringente tra la noetica e la cosmologia dell’Occidente latino con la metafisica di tradizione neoplatonico-araba viene rapportata alla concezione fortemente intellettualistica dell’esercizio della ragione che, a partire dal nesso tra felicità speculativa e felicità politica, accorda in un’ideale comunità epistemica la riflessione dantesca con i variegati percorsi dell’averroismo latino.
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